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Di un eterno precipitare

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Di un eterno precipitare

  • by Dr. Paolo Iervese
  • Ott. 10, 2013
  • Disturbo ossessivo-compulsivo

Ossessioni e oscillazioni maniaco-depressive nel modello esplicativo del cognitivismo post-razionalista
(affinché lo stupore non si trasformi in stupor)

Stupore: stato di arresto completo della motilità volontaria associato a rallentamento o torpore dell’attività ideativa e a un distacco dalla realtà esterna.

Stupore: forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire.

Non è forse il nostro un eterno precipitare? La domanda di senso nasce dalla proposizione della tragedia che si profila nell’annuncio dell’uomo folle che irrompe sulla piazza del mercato. Con questa antifona tragica, nel controcanto esistenziale che Nietzsche oppone al coro cristiano e a quello positivista, il filosofo ci introduce nel cuore della tragedia contemporanea, mettendoci di fronte all’ horribilis vacuum dell’assenza di valore che, alla fine di un ciclo bi-millenario, ha atteso l’uomo religioso, il frutto malato dell’incontro equivoco quanto grandioso tra religione semitica e logos greco.

L’homo religiosus in Occidente si è costituito sulla fusione di traiettorie spirituali incommensurabilmente diverse, reciprocamente inopportune e refrattarie a qualsiasi sintesi. Eppure l’Alessandria di Origene è stata solo una palestra (e troppe altre ne verranno, per quanto parcellizzate in umbratili monasteri e scuole cattedrali ) in cui l’ipse dixit mutava di bocca solo per rendere logico lo spirituale e ragionato (svilito?) ciò che non aveva spiegazione che nei sentieri che si arrampicavano in cerca di alture e templi, in quell’esercizio che darà forme e istituzioni tanto grandi e durature da far ombra alla considerazione che, sola, avrebbe dovuto aprire gli occhi: la decadenza del razionalismo greco avrebbe necessariamente trascinato con sé la certezza del semita, travolto dai dubbi di un domandare circolare e senza vie di fuga. Cosa salvare delle ripugnanze aristoteliche per l’infinitamente regredire, come se in quell’angoscia ossessiva per l’assenza di una fine si giocasse qualcosa di essenziale per il Signore degli eserciti, JHWH, per il quale mille anni sono come il giorno di ieri che è passato? Ma l’ossessivo che allucina sulla circolarità del circolo e che, nonostante tutto, deve necessariamente uscire dal giro dell’eterna e ricorsiva manopola del proprio stereo che mai smette di girare, su cosa basa la necessità di interrompere lo “stupor mundi” del sempre uguale ricorrente?

La necessità di un’uscita radiale dalle traiettorie ricorsive e circolari, che del senso della vita sembrano essere l’unica rappresentazione sensata, rende inutile il tentativo di una costruzione alternativa che regga agli assalti del logos; troppo dovremmo penare per dare senso razionale a una narrazione che si struttura su un bisogno emotivo, visto che già Spinoza coglie l’impossibile dell’assoggettare l’emozione con il pensiero. I cognitivisti neocartesiani della scuola di Beck trovano qui lo scacco più totale; come se non bastasse l’errore filogenetico che vuole l’emozione secondaria rispetto al pensiero, Beck costruisce un processo terapeutico sulla possibilità di controllare le emozioni con la ragione, tragico epigono di un razionalismo cartesiano troppo letterale per essere vero.

Il bisogno emotivo consiste nella necessità di rispondere allo stupore per lo stupor mundi che si fa stupor comatoso, all’allucinazione ipnagogica che coglie l’ossessivo rincorrere l’eterno ritornare di ciò che deve trovare soluzione, ma affascina così, perché nel rifuggire il compimento mima perfettamente i meccanismi ricorsivi slatentizzati dal mancato controllo dei patways serotoninergici sul nucleo caudato. Disfunzione strutturale che sottolinea e accompagna la disfunzione cognitiva e ricorsiva del non poter evitare di pensare continuamente un esito catastrofico che si conosce già come irreale; non stiamo parlando, però, di delirio, non stiamo credendo a ciò che con tutte le nostre forze temiamo, non si tratta di psicosi, nella compulsione ossessiva, ma di un bisogno acuto di arrestare l’inarrestabile, con la sensazione di fondo che un successo della rimozione dell’inserzione di pensiero lascerebbe spazio a un vuoto esistenziale, a tratti a una nostalgia del tutto sempre che caratterizza il pensiero onnipotente e onnipresente dell’ossessivo.

La struttura dialettizzante dell’opposizione polare, i cui contorni agonistici vengono attraversati tramite infinite oscillazioni tra confini antagonistici, nel caso del DOC è tutta qui: nel primo polo devo pensare l’irreale, travolto dal dubbio che sia possibile anche solo per un’infinitesima porzione statisticamente insignificante, ma esistenzialmente significante il mondo logico-analitico in cui l’ossessivo si è rifugiato; all’altro polo non troviamo, come potremmo immaginare, l’alternativa opposta al bianco, che nella logica tutto o nulla dell’ossessivo sarebbe sempre e comunque il nero, bensì, a questo livello, gerarchicamente superiore a quello dell’opposizione tutto o nulla, essendone il risultato processuale, la paura che l’uscita dalla ricorsività lasci spazio al nulla che di quella ricorsività è padre. L’esito compulsivo, nella gestione delle ansie, è solo l’ultimo passaggio in una sofisticata strategia di controllo di quelle emozioni che l’ossessivo non può neanche permettersi di provare. In famiglie incentrate su dovere e responsabilità personale, dove l’affettività passa con il contagocce e sempre solo se meritata tramite comportamenti specchio dell’aspettativa parentale, le emozioni non possono essere sperimentate. La dimensione affettiva passa attraverso la formalizzazione ritualizzata delle distanze e la totale supremazia del livello linguistico logico-analitico su tutte le altre dimensioni affettive più calde (Guidano, 1988).

Nel pieno di pensiero le emozioni sembrano aderire perfettamente al mondo logico-analitico costruito dall’ossessivo: dove lo spazio per l’altro viene riempito da una continua produzione di pensiero e dove dà pensiero solo ciò che questa produzione consente, come se il contenuto del pensiero ossessivo fosse assolutamente secondario alla necessità del pensare come produzione volumetrica, in grado di colmare spazi, appunto, che originano dall’ansia, ma che si caratterizzato per una propria intrinseca e autonoma, per quanto possibilmente perversa, ragion d’essere. L’ossessivo si affida al pensare che lo allontana dal sentire e crea un nuovo sentire in grado di supplire il primo e completamente adeso alle logiche del pensiero, un sentire artificiale, se è vero come abbiamo già sostenuto che il pensiero non guida l’emozione. Nella modalità ricorsiva dell’ossessivo pensieri ed emozioni sembrano girare vorticosamente su un livello altro rispetto a quello causale da cui originano le processazioni disfunzionali e il piano dei significati personali viene radicalmente trasceso dallo spostamento cognitivo che l’ossessivo effettua solo per cercare di ingannare le emozioni che lo angosciano e che egli prende per la prova evidente della propria inadeguatezza. Provare emozioni è vietato, dunque, ma nello stesso tempo getterebbe un dubbio terribile sulla personalità di quel genitore che emozioni non ha mai manifestato.

Dunque per l’ossessivo l’uscita dall’eterno ritorno significherebbe un entrare nel mondo emotivo del sentire, tralasciando per un attimo almeno la fuga nella circolarità della rappresentazione (para)logica. In questo ingresso nel sentire, poi, come se non bastasse la fatica dello stare in relazione, egli dovrebbe per un attimo almeno dirsi la verità su di sé, sulla propria famiglia, sulle proprie costruzioni affettive, sui rapporti che nella realtà ha saputo costruire. In Nietzsche troviamo la soluzione: mordere la testa del serpente, assumere maniacalmente il circolo come unica possibilità e amare fino in fondo la gabbia che ci si è costruiti. (CONTINUA)

Dr. Paolo Iervese


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Iscritto all’Ordine degli Psicologi della Lombardia n. 03/14493, dal 14/04/2011
Laurea In Neuroscienze Cognitive, Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva
P.I. 03285880120

 

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